Tu sì e tu no: dilemmi etici e pratici ai tempi del Coronavirus
La scelta di chi curare imposta dalla carenza di risorse e provocata a sua volta dall’abnorme affluenza di pazienti ci ha posto di fronte a un dilemma dai risvolti tanto importanti quanto delicati.
Oltre a tante altre complessità di varia natura, il Coronavirus ci ha posto di fronte a un dilemma dai risvolti tanto importanti quanto delicati: si tratta della scelta di chi curare imposta dalla carenza di risorse e provocata a sua volta dall’abnorme affluenza di pazienti. Ne parliamo riportando alcuni estratti di notizie e commenti, spesso drammatici, apparsi nel periodo di marzo-maggio, quando la pandemia aveva iniziato le sue scorrerie in Italia, in Europa e nel resto del mondo.
Sono un anestesista rianimatore di un ospedale bergamasco e siccome c’è sproporzione tra le risorse ospedaliere, i posti letto in terapia intensiva e gli ammalati critici, ultimamente ho notato purtroppo che non tutti questi ultimi vengono intubati. Al momento [9 marzo 2020 N.d.R.] non esiste una regola scritta di selezione. Per consuetudine, anche se mi rendo conto che è una brutta parola, si valutano con molta attenzione i pazienti con gravi patologie cardiorespiratorie e le persone con seri problemi alle coronarie, perché tollerano male l’ipossia acuta e hanno poche probabilità di sopravvivere alla fase critica. Se poi una persona tra gli 80 e i 95 anni presenta una forte insufficienza respiratoria, verosimilmente non si procede. Inoltre se ha un’insufficienza in più di tre organi vitali, significa che ha un tasso di mortalità del cento per cento, è spacciato, e dobbiamo “lasciarlo andare”. Anche questa è una frase terribile, ma purtroppo è vera. Non siamo nelle condizioni di tentare quelli che comunemente si chiamano miracoli. E’ la realtà. In tempi normali si valuta caso per caso e nei reparti si cerca di capire se il paziente possa recuperare da qualunque intervento. Adesso questa discrezionalità la stiamo applicando su larga scala e tanti di noi medici ne escono stritolati, perché la scelta è basata sul presupposto che qualcuno, quasi sempre più giovane, ha più probabilità di sopravvivere dell’altro. Capita al primario come al ragazzino appena arrivato che si trova di prima mattina a dover decidere della sorte di un essere umano. E ciò, lo ripeto, avviene su larga scala. Il nostro lavoro è massacrante e il carico emotivo che ne risulta è devastante. Ho visto piangere infermieri con trent’anni di esperienza alle spalle, gente che all’improvviso trema in preda a crisi di nervi. In questo momento il “diritto alla cura” è minacciato dal fatto che il sistema non è in grado di sostenere l’ordinario e allo tempo stesso lo straordinario. Non cerco una spiegazione a tutto questo. Mi dico che è come per la chirurgia di guerra: si cerca di salvare la pelle solo a chi ce la può fare. Oggi la gente non sa ancora cosa sta succedendo negli ospedali, per questo motivo ho deciso di parlarne.
In Spagna le autorità regionali competenti hanno sempre negato l’utilizzo di parametri selettivi per impedire i trasferimenti negli ospedali di pazienti-Covid anziani o disabili, al fine di evitare il possibile collasso delle unità di terapia intensiva durante il picco epidemico. Ma un protocollo di direttive, inviato il 18 marzo a vari nosocomi della comunità di Madrid, epicentro dell’epidemia, indicava nero su bianco i “criteri di esclusione”. “Si procederà a trasferire in ospedale i pazienti che non abbiano le seguenti caratteristiche, che saranno criteri di esclusione” è scritto a lettere maiuscole nel protocollo di coordinamento, poi aggiornato con successive versioni. Fra gli obiettivi del “Piano di azione unico per il supporto sanitario alle residenze pubbliche e private della regione di Madrid”, vi è quello di “contribuire alla sostenibilità del sistema sanitario” e di “identificare i pazienti che beneficiano di un trasferimento in ospedale per una migliore prognosi di sopravvivenza e di qualità della vita a breve e a lungo termine”. Infatti, pur rimettendosi a “princìpi di bioetica e al codice deontologico dei professionisti sanitari in situazioni di emergenza e catastrofi sanitarie”, si esplicitano con precisione, grazie agli indici di Barthel, questi parametri selettivi per gli anziani e i disabili condannati a restare nei loro centri di origine.
È ancor più inquietante di quanto si potesse temere ciò che sta accadendo alle persone con disabilità degli Stati Uniti, dove, durante l’attuale emergenza sanitaria, molti stati hanno scelto di abbandonare le persone con diverse disabilità per consentire la cura dei normodati. Infatti le linee guida di alcuni stati sono palesemente discriminanti: ad esempio in Tennessee restano indietro le persone affette da atrofia muscolare spinale e in Minnesota quelle con cirrosi epatica, malattie polmonari e problemi cardiaci, mentre Washington, New York, Utah, Colorado e Oregon valutano le abilità fisiche e intellettive generali. Oltretutto, per i più vulnerabili, si è già affermato un altro principio inquietante. Si tratta della “regola d’oro”, presente in quasi tutti i documenti di gestione delle risorse, che impone una pressione inaudita: cioè si chiede a un paziente se, in caso di scarsità di strumenti salvavita, vuole avervi accesso lo stesso oppure lasciare il posto a chi potrebbe avere più probabilità di sopravvivenza o “maggior valore per la società”. Così, secondo gli indicatori a stelle e strisce, i disabili stanno morendo di Covid-19 a un ritmo cinque volte superiore a quello del resto della popolazione. E sale sempre più il numero degli stati che permettono agli ospedali di non fornire un respiratore ai malati cronici o a chi presenta minorazioni fisiche o mentali, facendo scivolare “in fondo alla fila” chi necessita di una più grande quantità di risorse, o ha ricevuto diagnosi specifiche. Mentre dunque si trovano ad affrontare maggiori probabilità di morire per la pandemia, le persone disabili statunitensi continuano a lottare contro regole discriminatorie, sull’accesso alle cure intensive, stilate dai parlamenti o dalle amministrazioni locali. “Una civiltà che pianifica chi sta sopra e chi sta sotto è terribile”, e purtroppo sta succedendo.
Nove livelli, da “Very fit” a “Terminally ill”, dai sani a chi è all’ultimo stadio. Sono le linee guida per aiutare i medici inglesi a decidere chi dovrebbe ricevere prima le cure durante l’epidemia di Covid-19. Peter Singer, che aveva già giudicato la vita dei disabili indegna di essere vissuta, scrive sul Sunday Morning Herald: “In tempi normali la regola di assegnazione dei letti di terapia intensiva è: primo arrivato, primo servito. Ma che dire della qualità di vita nel corso della pandemia? Un paziente con demenza può avere un’aspettativa di vita più lunga di un paziente nel pieno delle capacità mentali, però chi dovrebbe essere preferito?”.
La Siaarti (Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva), ha pubblicato ieri [8 marzo 2020 N.d.R.] delle raccomandazioni di etica clinica per tutti i professionisti che in questi giorni lavorano nei reparti più sotto pressione del paese. La dottoressa Flavia Petrini, presidente Siaarti, ha così commentato. “Si tratta di un documento tecnico, destinato agli addetti ai lavori, e sul quale non ci sarebbe bisogno di un dibattito pubblico. I casi si discutono singolarmente, mettendo a conoscenza i parenti delle persone interessate di quello che si intende fare. Lo abbiamo redatto perché in Lombardia si stanno vivendo condizioni disperate, e i professionisti hanno l’esigenza di non essere lasciati soli di fronte a scelte difficili. Quando ci sono più pazienti per un solo respiratore, bisogna privilegiare chi è più giovane o comunque non ha patologie importanti. Quindi può rendersi indispensabile dare la precedenza a chi ha maggior speranza di vita e non seguire necessariamente il normale criterio di accesso alle terapie intensive basato sull’ordine di arrivo cronologico. Già prima dell’emergenza del Coronavirus venivano prese decisioni su quali pazienti trattare, ma non capitava spesso e così si riusciva a gestire lo stress. Fra l’altro il principio della cura intensiva per chi ha maggior speranza di vita era già stato indicato in altri documenti e utilizzato. In questo momento non è la condotta del professionista a essere eccezionale, ma l’alto afflusso di persone malate. E faccio notare che il principio non viene applicato solo a chi è affetto da Coronavirus, ma anche a chi è colpito da altre patologie gravi, che ovviamente continuano a esserci”.
In numerosi paesi del mondo, di fronte all’esigenza della cura, sta emergendo un modello pericoloso a favore di una “sanità selettiva”, che considera residuale la vita di disabili e anziani. La loro maggiore vulnerabilità giustificherebbe così una forma di “scelta” a vantaggio dei più sani e dei più giovani. Rassegnarsi a tale esito è umanamente inaccettabile. Lo è in una visione religiosa della vita ma pure nella logica dei diritti dell’uomo e nella deontologia medica, e non può essere avallato alcuno stato di necessità che legittimi o codifichi deroghe a tali princìpi. La tesi che una più breve speranza di vita comporti una diminuzione legale del suo valore è, da un punto di vista giuridico, una barbarie. Che ciò avvenga mediante un’imposizione (dello stato o delle autorità sanitarie) esterna alla volontà della singola persona, rappresenta un’intollerabile espropriazione dei diritti dell’individuo.
La Ledha (Lega per i diritti delle persone con disabilità) ha così commentato: “Non vi è nulla di naturale in questa scelta crudele di sacrificare le persone più fragili, illudendosi così di salvare quelle più forti. Con le loro vite stiamo sacrificando anche la nostra dignità, la dignità di ognuno di noi”.
Catalina Devandas Aguilar, relatrice speciale delle Nazioni Unite, è intervenuta affermando che “Le persone con disabilità devono avere la garanzia che la loro sopravvivenza sia considerata una priorità. Le varie nazioni dovrebbero varare dei protocolli per le emergenze di salute pubblica al fine di garantire che, quando le risorse mediche sono limitate, le persone disabili non siano discriminate nell’accesso alla salute”.
Nella nota “Pandemia e fraternità universale” della Pontificia accademia per la Vita si riconosce che “Le condizioni di emergenza in cui molti paesi si stanno trovando, possono arrivare a costringere i medici a decisioni drammatiche e laceranti di razionamento delle risorse limitate e quindi non contemporaneamente disponibili per tutti. Ma dopo aver fatto il possibile sul piano organizzativo per evitare questo razionamento, andrà sempre tenuto presente che la decisione non può basarsi su una differenza di valore della vita umana e della dignità di ogni persona, che sono sempre uguali e inestimabili”.
Di fronte a questa deriva preoccupante, alcune associazioni italiane che promuovono e tutelano i diritti umani, civili e sociali e la qualità di vita delle persone con disabilità e malattie croniche, oncologiche, rare e complesse, hanno scritto una lettera aperta al governo, nella quale viene chiesto che vengano messe in atto azioni preventive affinché non ci si ritrovi di fronte alla necessità di scegliere quali vite umane meritino di essere salvate e quali sacrificate. Nella loro richiesta, le associazioni ritengono urgente e necessario implementare, come già si sta peraltro facendo, la possibilità di predisporre posti letto di emergenza, tenendo conto in tale implementazione delle specifiche necessità delle persone con gravi patologie croniche, rare e complesse. Resta fermo che, ove si rendesse necessario un ricovero ospedaliero, l’accesso a cure di pari qualità deve essere garantito a tutti i pazienti, senza porre alcuna discriminazione fondata sulle condizioni di salute preesistenti, né di età o di disabilità della stessa persona.
Il Comitato nazionale per la Bioetica non elude il problema dell’allocazione di risorse scarse a fronte di bisogni enormi, e lo affronta stabilendo criteri di priorità nell’accesso ai trattamenti, senza escludere nessuno a priori: si continuano ad adottare i criteri del triage nel pronto soccorso ospedaliero in tempi normali, dilatandoli però alla situazione creatasi con lo scoppio della pandemia. Il Cnb propone quindi un “triage in emergenza pandemica”, riconoscendo “il criterio clinico come il più adeguato punto di riferimento” e “ritenendo ogni altro criterio di selezione, quale ad esempio l’età, il sesso, la condizione, il ruolo sociale, l’appartenenza etnica, la disabilità, la responsabilità rispetto a comportamenti che hanno indotto la patologia e i costi, eticamente inaccettabile”. Il Comitato articola il criterio clinico in due concetti: appropriatezza clinica e attualità. “Appropriatezza clinica” significa che per ogni singola persona malata si tiene conto della condizione clinica globale, dell’urgenza e gravità della situazione, e in base a tutti i fattori si valuta ragionevolmente per chi, fra i pazienti, “il trattamento può risultare maggiormente efficace, nel senso di garantire la maggiore possibilità di sopravvivenza. Non si deve cioè adottare un criterio in base al quale la persona malata verrebbe esclusa perché appartenente a una categoria stabilita aprioristicamente”. Invece con l’“attualità” il Cnb propone, a differenza del triage ospedaliero normale, una sorta di lista di attesa dinamica, dove la valutazione di ogni singolo malato viene condotta tenendo conto della “comunità dei pazienti” già esistenti. Questa valutazione verrebbe poi aggiornata periodicamente, a seconda delle tempistiche dettate dalla malattia, e possibilmente condivisa da più medici.
E allora? L’argomento è molto delicato e i vari punti di vista su di esso divergono anche in maniera viscerale. Ma chi ha ragione? E poi: esiste davvero una “ragione”? Personalmente ho incominciato a formarmi un’idea più precisa quando, durante la sensibilizzazione nelle scuole, ho dovuto spiegare la fredda matematica della razionalità a bimbi dapprima incuriositi e poi stupiti. L’esempio era quello degli aerei, in cui i posti destinati ai disabili sono di solito collocati lontano dalle uscite d’emergenza. La spiegazione è semplice: in caso di eventuali evacuazioni rapide l’“inerzia” di questi particolari passeggeri ostacolerebbe la fuga o le manovre di salvataggio di tutti gli altri. E’ un crudo motivo logistico, da cui trapela una specie di “darwinismo d’alta quota”. Ma in fin dei conti è da ritenersi ingiusto? Sono disabile da oltre quarant’anni, eppure quando ho scoperto questa faccenda, al contrario di altri miei colleghi in carrozzina, non sono riuscito ad arrabbiarmi. In frangenti di questo tipo è ovviamente indispensabile abbandonare l’egoismo e affidarsi alla logica: nel corso di un grave incidente aereo (e non solo) è meglio avere un ipotetico 5% di speranza di salvarsi ed essere indirettamente responsabile di numerose altre morti, oppure scendere al misero 1% di probabilità di venirne fuori ma permettere la salvezza di tante altre persone? Ognuno può dare la sua risposta in piena coscienza. Io, la mia, l’ho già formulata: seppur a malincuore (e magari imprecando e urlando al cielo la mia disperazione nell’ipotetico momento cruciale) mi affiderei alla matematica, preferendo entrare nel gruppo dei sacrificati affinché tanti altri possano scamparsela. Non vorrei però apparire come quell’eroe che di certo non sono, infatti sto solo facendo dei semplici ragionamenti teorici, attaccato a una scrivania e con una placida musichetta in sottofondo. Comunque sussiste una precisa analogia tra questa situazione, pur pianificata a tavolino, e le convulse fasi della pandemia da Covid-19. È facile gridare “No a una sanità selettiva”, ma è soltanto uno slogan ineseguibile, spesso amplificato a vanvera dai media. In pratica poi, nelle tragiche contingenze in cui la lotta diventa feroce come in una guerra, risulta umanamente impossibile salvare capra e cavoli. Bisogna quindi potenziare al massimo livello la prevenzione, chi crede può anche pregare con fervore la sua divinità, ma poi, nei casi di eventualità estreme, è indispensabile rimettersi a linee guida sanitarie ben precise, eque, non discriminanti e soprattutto stilate da esperti che, pur nel dolore di determinate scelte, sappiano preservare al massimo grado la dignità dei pazienti.