L’elaborazione del lutto
Fasi, emozioni e pensieri legati alla perdita

L’etimologia della parola “lutto” si ricollega al latino luctus, dal verbo lugere, cioè piangere, e in senso più lato significa soffrire per una perdita. In inglese si usa la parola grief o to grief (essere in lutto), il cui vero significato però è dolore, il particolare dolore legato alla perdita. Non esiste un gradiente del dolore e quindi non possiamo fare una classifica della sofferenza, ma tutti sappiamo quanto è pregnante, persistente, invadente e schiacciante il male che deriva da una scomparsa.
Il lutto è definibile come uno stato psicologico conseguente allo svanire di un “oggetto” significativo, che ha fatto parte integrante dell’esistenza. La mancanza può essere di un “oggetto” esterno, come la morte di una persona o di un animale domestico, la separazione geografica, l’abbandono di un luogo, oppure interno, come il chiudersi di una prospettiva, la privazione della propria immagine sociale o un fallimento personale.
Quando parliamo della perdita di una persona cara, un genitore, un figlio, un compagno o un amico, diventa possibile affermare che più la relazione con chi se n’è andato era stretta, intima e intensa, più la sensazione della sofferenza aumenta.
La vita cambia in fretta. | La vita cambia in un istante. | Una sera ti metti a tavola e la vita che conoscevi è finita. Così inizia “L’anno del pensiero magico” di Joan Didion, libro magistrale in cui la giornalista e scrittrice narra il modo in cui ha affrontato il primo anno seguito alla morte improvvisa del marito. Le sue parole ci catapultano immediatamente e con chiarezza, nella portata e nel significato che ha la scomparsa della persona amata (il cambiamento, la riorganizzazione).
Ma cosa accade dentro di noi quando subiamo questo dramma? Che cosa significa elaborare il lutto? Che cosa significa l’accettazione? In letteratura troviamo numerosi studi che affrontano quest’argomento, partendo da Lindemann che nel 1944 propose le prime descrizioni della sintomatologia post-lutto. Invece nel 1982 Bowlby studiò per molto tempo la costruzione e la rottura dei legami affettivi e identificò quattro fasi del lutto:
1) Disperazione acuta, caratterizzata dal rifiuto della perdita.
2) Intenso desiderio e ricerca della persona deceduta.
3) Disorganizzazione e angoscia.
4) Riorganizzazione, durante la quale gli aspetti acuti del dolore iniziano a ridursi e la persona afflitta comincia ad avvertire un ritorno alla vita.
Forse però, la teoria più famosa è quella delle cinque fasi elaborate nel 1970 da Kübler-Ross:
1) Fase della negazione o del rifiuto, costituita da una negazione psicotica dell’esame di realtà.
2) Fase della rabbia, costituita da ritiro sociale, sensazione di solitudine e necessità di direzionare esternamente il dolore e la sofferenza (forza superiore, dottori, società eccetera) o internamente (non essere stati presenti, non aver fatto di tutto eccetera).
3) Fase della contrattazione o del patteggiamento, costituita dalla rivalutazione delle proprie risorse e da un riacquisto dell’esame di realtà.
4) Fase della depressione, costituita dalla consapevolezza che non si è gli unici a patire quel dolore e che la morte è inevitabile.
5) Fase dell’accettazione del lutto, dove la perdita viene elaborata e si accetta una differente condizione di vita.
E’ importante sottolineare come queste vengano definite fasi e non stadi, poiché non si assiste a una rigorosa sequenzialità, ma esse possono presentarsi con differenti tempistiche, alternanze e intensità.
Le reazioni al lutto possono essere ricondotte a quattro categorie: emozioni, sensazioni fisiche, cognizioni e comportamenti.
L’emozione più comune che si trova nelle persone in lutto è la tristezza, espressa sovente con il pianto. Troviamo anche collera, colpa e auto-rimprovero, ansia, shock, solitudine (emotiva e sociale), struggimento, sollievo (se ad esempio la persona cara ha dovuto affrontare una lunga e pesante malattia) e stordimento (inteso come incapacità di provare emozioni).
Ad accompagnare queste emozioni, le persone in lutto spesso riportano sensazioni fisiche di fatica, di debolezza, mancanza di energia e talvolta un senso di depersonalizzazione (inteso come il sentirsi scollegati dal proprio corpo).
Da un punto di vista cognitivo l’elaborazione del lutto è caratterizzato nella maggior parte dei casi da incredulità, confusione (difficoltà di concentrazione e di organizzazione dei pensieri) e preoccupazione.
Possono inoltre essere presenti una serie di comportamenti specifici a seguito di una scomparsa, come: disturbi del sonno o dell’appetito, distrazione, isolamento sociale (tendenza a evitare gli altri), sognare la persona che non c’è più, eludere i ricordi evitando luoghi o oggetti che ricordano il defunto o al contrario visitare luoghi o portare oggetti che ricordano la persona scomparsa, piangere e sospirare.
Nella mia esperienza di psicologa clinica Uildm, aiutare le persone a elaborare un lutto è diventata una parte integrante del mio lavoro. Infatti quando parliamo di malattie neuromuscolari ci troviamo di fronte a patologie degenerative e con una prognosi talvolta infausta, che portano genitori, coniugi, fratelli a vivere sapendo che molto probabilmente subiranno una perdita devastante. Sebbene sia presente questa consapevolezza, la morte del proprio caro risulta sempre come un evento improvviso, che toglie la speranza di quel tempo in più da trascorre insieme. In alcuni casi il senso di colpa, normalmente presente in questa fase, può essere legato anche all’aspetto del trasferimento genetico della patologia, inducendo ad esempio i genitori a sentirsi responsabili e causa della trasmissione. Un altro punto estremamente rilevante è la gestione, oltre che del vuoto emotivo causato dalla morte del proprio caro, anche del vuoto pratico e temporale lasciato da tutte quelle attività che riguardavano la cura della persona che non c’è più e che portano i caregiver ad avere molto tempo libero che non sanno come riempire.
Spesso mi viene posta questa domanda: “E’ normale che mi senta così?”. Sembra impossibile poter provare e affrontare tutte queste fasi, ma esse fanno parte di quello che viene chiamato lutto fisiologico ed è fondamentale attraversarle per arrivare all’accettazione. Normalmente, quando fronteggiamo un lutto, siamo in grado di entrare in uno stato di accettazione entro circa diciotto mesi. In caso contrario, cioè quando è presente la difficoltà di accogliere la sua irreparabilità, il lutto può diventare patologico.
Accettare il lutto significa accettare il fatto che, a seguito della scomparsa di una persona, esiste una nuova realtà che non può essere cambiata e nel capire come tale realtà avrà un impatto sulla propria vita, sulle proprie relazioni e sulla propria traiettoria esistenziale.
Accettare non significa scivolare di nuovo nella negazione, fingendo che la perdita non sia avvenuta.
Accettare significa abbracciare il presente, comprendere la portata della privazione piuttosto che combatterla, assumere la responsabilità di se stessi e delle proprie azioni e iniziare il viaggio verso una nuova fase della vita.
Accettare significa aprirsi e fare spazio a emozioni, sensazioni e sofferenze, abbandonando la lotta contro di esse, che non vuol dire volerle o farsele piacere, ma semplicemente offrire loro una casa affinché l’impulso a evitarle non finisca per esercitare un controllo sul comportamento.
Accettare significa comprendere che tutti noi stiamo facendo del nostro meglio.
Non so dove vanno le persone quando scompaiono, ma so dove restano (“Il piccolo principe” di Antoine de Saint-Exupéry).