Pubblicato da Noemi Canavese il: 5 giugno 2023

Isolamento e solitudine relazionale

Cause esterne e cause interne: un circolo di sofferenza che alimenta la solitudine

isolamento-1

Da tre anni a questa parte il concetto di isolamento sociale è diventato un mantra con queste particolari formulazioni: isolarci per poterci reincontrare, evitare il contatto con l’altro per salvaguardare la nostra e l’altrui salute, oggi siamo divisi ma domani saremo più uniti, restare in casa è un atto d’amore. Se il Covid-19 ha stressato questi concetti, è indubbio che l’isolamento e la solitudine appartengano all’uomo da ben prima della recente pandemia.

Sono certa che, almeno una volta nella vita, è successo a tutti di trovarsi fra la folla, di essere circondati da persone, ma accorgersi di non appartenere a quel mondo, di non essere connessi con gli altri e quindi di sentirsi soli. Per definizione l’uomo è un animale sociale e quindi ha fortemente bisogno di relazioni gratificanti: sul posto di lavoro, nei luoghi frequentati abitualmente, all’interno delle relazioni amicali, familiari e di coppia.
Lo psichiatra esistenzialista statunitense Irvin Yalom ha identificato quattro dati di realtà e temi esistenziali fondamentali per l’essere umano: l’inevitabilità della morte tanto per noi stessi quanto per le persone che amiamo, la libertà di determinare la nostra esistenza attraverso le nostre scelte, l’assenza di un significato o di un senso della vita che ci sia immediatamente percettibile e infine la solitudine nel mondo che, in ultima analisi, ciascuno di noi vive.
La solitudine non è necessariamente qualcosa da cui rifuggire sempre: “Sotto certi aspetti è un’esperienza necessaria, ineluttabilmente connessa alla condizione umana. È la nostra stessa individualità a imporci la solitudine. Non è possibile sfuggirle se non a costo di perdere la nostra identità” (tratto da “Sentirsi soli” di Maria Miceli). Infatti quando la solitudine si presenta come un atto consapevole, diventa un’occasione di crescita personale, di riflessione su di sé e di grande intimità con se stessi. In alcuni casi poi, è l’unico modo che abbiamo per stare al mondo, come ci spiega lo scrittore spagnolo José Ovejero nel libro “Donne che viaggiano sole”: “Non è che in quei momenti la solitudine non le pesi, tuttavia la percepisce come l’unico modo di aprirsi all’esperienza quasi mistica di ammirare la bellezza del mondo”.

Ciononostante, spesso, la solitudine non è qualcosa di ricercato e così l’individuo la subisce soffrendone profondamente.
L’isolamento interpersonale, in genere sperimentato come solitudine, si riferisce all’isolamento dagli altri individui. È una funzione costituita da diversi fattori, sia esterni (il mondo) che interni (la percezione, il vissuto personale e le proprie capacità): separazione fisica e geografica, mancanza di capacità sociali appropriate e sentimenti energicamente conflittuali in relazione all’intimità. Oltretutto anche le componenti culturali hanno un ruolo importante nell’isolamento interpersonale. Se questi aspetti riguardano tutti gli esseri umani, nella mia esperienza di lavoro con persone disabili emerge chiaramente come la solitudine sia uno dei temi più discussi durante i colloqui di sostegno psicologico. Ma quali sono le caratteristiche di questo tipo di solitudine?
Una premessa doverosa è che non tutti percepiamo gli eventi del mondo nello stesso modo, e questo vale anche per quei fatti e quelle situazioni che potrebbero farci sentire soli e per l’impatto differente che queste evenienze possono avere su individui differenti.
La prima caratteristica che contraddistingue la solitudine delle persone con disabilità è la diversità, intesa sia come fonte interna che esterna. Infatti, da sempre, la società etichetta come diverse le persone disabili, mettendo in atto, molto frequentemente, azioni e comportamenti che escludono l’individuo. Ecco qualche esempio: ambulatori ginecologici non accessibili che trascurano le donne portatrici di handicap, associazioni LGBTQ+ che rifiutano persone disabili LGBTQ+ (sic!), luoghi di lavoro dove vengono trovate soluzioni “privilegiate” all’inaccessibilità, che però isolano di fatto la persona disabile e che alimentano ancora di più la percezione della diversità, prese in giro e bullismo che portano l’individuo a ritenersi inferiore agli altri e a sentire di non valere abbastanza proprio perché diverso. Quindi il sentirsi esclusi e in qualche modo differenti porta a un circolo vizioso in cui la persona disabile si isola ancora di più, in parte proprio come unica possibilità di difesa rispetto alla sofferenza provata.
La seconda caratteristica, estremamente connessa alla diversità, è la non accessibilità: un luogo non accessibile fisicamente esclude a priori e infatti solo le persone disabili conoscono bene la fatica, prima di una qualsiasi uscita, di accertarsi che la meta da raggiungere non abbia barriere architettoniche e che in essa siano presenti servizi igienici fruibili. Fra l’altro l’inaccessibilità può essere non solo fisica, ma anche figurata, inoltre la persona disabile è totalmente non rappresentata in alcuni contesti e in alcuni ruoli, rendendoli di fatto non accessibili: ad esempio il cinema o il teatro dove la persona portatrice di handicap è chiamata in causa solo in quanto tale.
Di nuovo intimamente legata alla diversità, troviamo anche la paura del giudizio esterno, riassumibile in alcuni interrogativi: gli altri cosa penseranno di me? Si accorgeranno della mia patologia? Vedranno solo la carrozzina? Mi apprezzeranno lo stesso? Potrò essere amato? Mi vergogno del mio corpo, cosa c’è che non va in me? Non voglio far pena, e non voglio la pietà di nessuno, non sono una persona da compatire e ho le stesse esigenze di tutti gli altri individui: allora perché è difficile starmi vicino?
Ovviamente questi non sono tutti i fattori che portano a vissuti di solitudine, ma sono le tre situazioni che ritengo giochino un ruolo importante per le persone disabili. Considerando quanto è difficile per queste ultime mantenere relazioni stabili e durature, soprattutto dopo la conclusione del ciclo di studi, nei casi più gravi l’isolamento può portare a forme clinicamente rilevanti di depressione e di ansia sociale. Di conseguenza lavorare sulla propria autostima, sulla percezione di sé come soggetto valido e sulla capacità di lasciar andare il giudizio esterno, ma anche quello interno, diventa una buona strategia per incrementare i fattori protettivi e prevenire l’isolamento sociale. Infine, ma non meno importante, è il continuar a pensare e a trovare soluzioni sempre più inclusive (ad esempio il progetto del Parco giochi inclusivo della nostra Sezione).
Se è vero che in certe circostanze la solitudine è inevitabile, è altresì innegabile l’estremo bisogno dell’uomo di provare vicinanza, di sentirsi accolto, ascoltato, compreso e amato.

Anche se sei solo sulla tua barca, è sempre una consolazione vedere le luci delle altre barche che dondolano nelle vicinanze. (Irvin Yalom)