Pubblicato da Gianni Minasso il: 5 dicembre 2019

Dignità

La dignità vista relativamente al ristretto campo delle patologie neuromuscolari.

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Proseguendo il filone tematico inaugurato tempo fa, abbiamo deciso di dedicare quest’editoriale a un aspetto non proprio sotto ai riflettori: la dignità, in questo caso relativa al ristretto campo delle patologie neuromuscolari. Già l’elenco dei sinonimi di questo termine è illuminante: onorabilità, stima, decenza, rispetto, onestà, moralità, serietà, correttezza, compostezza, fierezza, contegno, orgoglio, nobiltà. Trascurando l’evoluzione storica del concetto, la definizione attuale è poi inequivocabile: “Stato o condizione di chi, per qualità intrinseche o per meriti acquisiti, è, o si rende meritevole, del massimo rispetto”. Ancora: “Condizione di nobiltà morale in cui l’uomo è posto dal suo grado, dalle sue intrinseche qualità, dalla sua stessa natura di uomo, e insieme il rispetto che per tale condizione gli è dovuto e che egli deve a sé stesso”. La dignità è dunque “uno strumento culturale decisivo al quale appellarsi per conferire alla propria posizione una veste civile adeguata. Tale concetto è penetrato progressivamente nel tessuto normativo di molti sistemi europei ed extraeuropeei, sino a essere inserito in diversi testi costituzionali e documenti sovranazionali: Carta delle Nazioni Unite (1945), Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo (1948), Costituzione della Repubblica federale tedesca (1949), Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (2009) eccetera”.
Si viaggia quindi ad alta quota, grazie a uno degli atteggiamenti più profondi della nostra natura, uno dei traguardi più difficili da raggiungere e soprattutto da mantenere nei complessi accadimenti della nostra vita. E se ciò vale per un’esistenza standard, figurarsi in un percorso vitale martoriato da una qualsiasi forma di distrofia muscolare… (“Anche nel dolore v’è un certo decoro, e lo deve serbare chi è saggio” scriveva Seneca). Tenere ben salda la barra del timone, quando tutto intorno ruggiscono i marosi, ad esempio, della Duchenne, appare un’impresa al di sopra delle capacità umane. Eppure bisogna farlo, bisogna mantenere lo stesso un livello minimo di dignità, cioè non reagire sempre come lord anglosassoni ma contenere la rabbia, limitare le escandescenze (“L’odio è un sentimento autolesionistico perché ci toglie la dignità, è come una catena” diceva Betancourt), restare calmi il più possibile, trovare la forza per riorganizzare validi percorsi alternativi e interagire normalmente con le altre persone. E tutto ciò non solo da parte di chi è direttamente coinvolto nella tempesta, cioè malati e loro familiari, ma pure degli attori operanti più ai margini, come amici, volontari, personale sanitario, semplici conoscenti e puri estranei. Persino per loro diventa consigliabile rispettare il prontuario della Dignità, quella con la D maiuscola, in quanto esiste un limite che non bisogna mai superare che si chiama, appunto, così. Ma perché? Perché ci picchiamo di essere una razza intelligente, l’eccellenza sulla Terra, e quindi, pur essendo questa una smaccata bugia, dobbiamo comunque dimostrarci degni (ecco!) di occupare un posticino in seno a madre Natura. Certo, non è un atteggiamento facile da assumere: è necessaria una certa qual maturità nell’affrontare passaggi difficili, inevitabili sconfitte e drammi cocenti. Addirittura, nella società odierna, la dignità appare come una qualità rara, non solo nel mondo della sofferenza ma un po’ dappertutto. Spesso, seppur sterilmente, rabbia e bestemmie prorompono infrangendo quella sobrietà che poteva essere d’aiuto agli altri e, attenzione, anche a noi stessi.
In conclusione giova ricordare le sempreverdi esortazioni racchiuse nella canzone “Devi sapere” del grande Charles Aznavour: “Devi sapere ancor sorridere quando il bel tempo se ne va, e resta solo la tristezza e giorni di infelicità. Devi sapere, che in questa angoscia, la dignità devi salvar…”.